|
Gli eventi
Anni '40
Seconda Guerra Mondiale. Cronache di guerra (3)
Ricevo e pubblico volentieri alcune informazioni e fotografie inviate dal Sig. Pujo Todorovic di Castelnuovo (Montenegro), in riferimento alla storia della bomba lanciata da Luj o Dujo Davico il 26 giugno 1942 a Niksic.
Il Sig. Todorovic, fa presente che non è verità il fatto del lancio della bomba. Il Davico abitava al piano superiore dello stesso stabile dove erano dislocati i soldati italiani e faceva il commerciante di cioccolato. (Nella foto giornale dell'epoca con l'immagine del stabile degli italiani).
Sembrerebbe che i soldati italiani stavano maneggiando la bomba, quando improvvisamente questa esplose. Gli stessi soldati non vollero ammettere che il fatto era accaduto a loro e attaccarono sparando e uccidendo il Davico, che non c'entrava nulla.
Il Sig. Todorovic, fa presente che non è verità il fatto del lancio della bomba. Il Davico abitava al piano superiore dello stesso stabile dove erano dislocati i soldati italiani e faceva il commerciante di cioccolato. (Nella foto giornale dell'epoca con l'immagine del stabile degli italiani).
Sembrerebbe che i soldati italiani stavano maneggiando la bomba, quando improvvisamente questa esplose. Gli stessi soldati non vollero ammettere che il fatto era accaduto a loro e attaccarono sparando e uccidendo il Davico, che non c'entrava nulla.
Seconda Guerra Mondiale. Cronache di guerra (2)
Testo di Marcello Piccioni
Qualche anno fa un amico di mio padre mi consegnò alcune fotografia, che pubblicherò in seguito, che illustravano la sua "avventura" nella Seconda Guerra Mondiale. Sono foto di una crudezza incredibile che però illustrano molto bene la crudeltà della guerra e la sua inutilità per risolvere le cosiddette "controversie internazionali" come recita la nostra Costituzione e come ha riaffermato l'alta autorità morale di papa Francesco. L'avventura di questo signore, classe 1920, inizia con il servizio di leva nel 48° Reggimento Fanteria "Ferrara" che faceva parte, insieme con il gemello 47° dell'omonima divisione (23a Div. Fanteria da Montagna "Ferrara"). Della stessa Divisione,occorre ricordare, facevano parte anche i seguenti reparti: 82ª Legione CC.NN. "Benito Mussolini", (i battaglioni di CC.NN. avevano la qualifica di reparti d'assalto, ma in realtà avevano il compito di controllare l'operato delle truppe regolari), 14° Reggimento artiglieria "Murge", XXIII Battaglione mortai da 81, 23ª Compagnia controcarri da 47/32, 58ª Compagnia genio, 23ª Compagnia mista telegrafisti/marconisti, 127ª Sezione sanità, 9ª Sezione, Sussistenza, 3ª Sezione panettieri e circa tremila irregolari albanesi.
Dopo aver combattuto alacremente e valorosamente nella campagna per l'invasione della Grecia, prevalentemente nella zona di Argirocastro-Giannina, nei primi giorni di gennaio del 1942 venne destinata alla difesa costiera della costa tra Durazzo ed il fiume Semeni. Nel 1941 gli eserciti dell'Italia fascista, del Terzo Reich, della Bulgaria e dell'Ungheria occuparono i territori Balcani e della Grecia. Il Regio Esercito Italiano (R.E.I.) era presente con ben 31 Divisioni e 670 000 soldati. All’inizio tutto il territorio del Montenegro e il Sangiaccato fu occupato e presidiato dalla 18ª Divisione fanteria "Messina", dai Reali Carabinieri, dal Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza, Guardia di Finanza e dalle Unità di Cetnici montenegrini. Successivamente l’area delle Bocche di Cattaro fu annessa al Regno d’Italia come una nuova provincia italiana, dipendente dal Governatorato della Dalmazia.
La campagna per l'invasione del Montenegro fu estremamente facile in considerazione anche del fatto che l'esercito Jugoslavo era praticamente in fuga disordinata verso la parte meridionale del Regno nella speranza di poter essere imbarcato dagli inglesi sulle coste adriatiche o a Salonicco in Grecia. Ma la storia non si ripeté come nel 1915 quando furono salvati dalla marina italiana e portati in salvo. Anche i rapporti con la popolazione montenegrina si dimostrarono subito eccellenti anche per il fatto che la regina d'Italia era montenegrina e del fatto che i rapporti tra Italia e Montenegro erano stati sempre ottimi. I comandi italiani, a differenza di quanto raccomandavano i rapporti del S.I.M., diedero ascolto in maniera acritica ai voleri di Mussolini e commisero una serie di sbagli, primo tra tutti quello di non catturare i soldati dell'esercito serbo e quello di dividere le forze d'occupazione in una miriade di presidi di piccola o piccolissima dimensione. Praticamente dislocarono i carabinieri, della Guardia di Finanza, ecc, seguendo lo stesso modello in uso in Italia. Due errori che gli italiani pagarono con un tributo enorme di sangue e di sofferenze. Ma queste erano le direttive politiche.
Il 12 luglio 1941 fu proclamato a Cettigne, sotto il protettorato dell'Italia, il "libero e indipendente" Regno di Montenegro. Il 13 luglio la popolazione montenegrine insorse, sotto la guida del Colonnello dei Cetnici, Dragoljub Mihailović, e di esponenti del Partito Comunista Jugoslavo, coinvolgendo circa 400 ufficiali dell'ex- Esercito Regio Jugoslavo. L'insurrezione popolare ebbe parziale successo e in sette giorni prese il controllo di quasi tutte le campagne (con l’esclusione delle città e della costa), prendendo di sorpresa i pochi reparti del Regio Esercito Italiano presenti ed impadronendosi di ingenti quantitativi di armi e altro materiale bellico. Come reazione il Comando Supremo del R.E.I. trasferì in Montenegro sei divisioni ("Cacciatori delle Alpi", "Emilia", "Pusteria", "Puglie", "Taro", "Venezia") sotto il comando del Generale di corpo d'armata Alessandro Pirzio Biroli con funzioni di Governatore civile e militare. Pirzio Biroli attuò durissime repressioni e rappresaglie contro i partigiani montenegrini, causando così lo sbandamento delle forze che guidavano l’insurrezione. Si alleò altresì con i gruppi di "nazionalisti" cetnici, ottenendo così la riconquista e il controllo quasi totale del territorio.
Tra le misure impiegate dai comandi militari vi furono anche i bombardamenti dell'aviazione contro villaggi e piccole cittadine e comincio' anche la caccia agli insorti e continui rastrellamenti. Il 2 dicembre 1941 i reparti del Regio Esercito irruppero nel villaggio di Pljevlja fucilando sul posto 74 civili e passando per le armi anche tutti i partigiani catturati. Il 6 dicembre dopo un attacco partigiano presso Passo Jabuka, che causò gravi perdite alle truppe del Regio Esercito, le autorità italiane disposero un'ampia azione di rastrellamento e distruzione delle zone circostanti coinvolgendo in particolare i villaggi di Causevici, Jabuka e Crljenica, che vennero bombardati e dati alle fiamme mentre civili e partigiani furono trucidati sul posto. Il 14 dicembre vennero fucilati 14 contadini nel villaggio di Drenovo, mentre nei villaggi di Babina Vlaka, Jabuka e Mihailovici vennero uccise 120 persone, tra cui donne e bambini, e incendiate 23 case. Queste brutalità provocò la reazione montenegrina e slava che si concretizzò nella creazione, strutturata, di formazioni partigiane con una forte presenza di comandanti comunisti guidati principalmente dai montenegrini Peko Dapčević (un ex comandante delle Brigate internazionali nella Guerra di Spagna) e Arso Jovanović, che in seguito fu capo di Stato Maggiore di Tito.
La resistenza partigiana comunista lottò su due fronti: contro gli occupanti italiani e i nazionalisti monarchici cetnici, filo italiani. C'è da notare che spesso gli Ustascia Croati e i tedeschi spingevano sia in Crozia che in Montenegro i partigiani serbi, comunisti, verso le zone di competenza italiana. Nel novembre 1941 le formazioni partigiane comuniste organizzarono circa 5.000 uomini nel territorio del Sangiaccato per conquistare la città di Pljevlja, sede della 5ª Divisione alpina "Pusteria". Il 1 dicembre 1941 ci fu la più sanguinosa battaglia dei partigiani slavi contro gli italiani. Le perdite in vite umane furono altissime da entrambi le parti. I reparti degli alpini della "Pusteria" furono costretti ad essere immobilizzati nel Sangiaccato e convivere con il grosso delle formazioni partigiane, al comando dello stesso Tito, nella vicina zona di Foča.
Nell’estate del 1942 la Divisione alpina "Taurinense" sostituì la "Pusteria" nel controllo del Sangiaccato. Nell'estate 1942 il paese fu investito dallo scoppio della guerra civile, quando i partigiani jugoslavi e i Cetnici iniziarono a combattere contro i separatisti montenegrini e le forze dell'Asse. Con il passar del tempo il conflitto in Montenegro divenne estremamente caotico e feroce, anche perché si formarono e si ruppero quasi ogni combinazione di alleanze tra le diverse fazioni in guerra. In questo quadro, nel paese fu attivo anche il secondo corpo di volontari serbi.
Nel maggio-giugno 1943 fu fatta confluire in Montenegro la divisione italiana "Ferrara", durante un rastrellamento nei distretti di Nikšić e Savnik, saccheggiò e distrusse in parte o totalmente tutti i centri abitati della zona, fucilando un gran numero di civili. Nel maggio-giugno 1943 la divisione italiana "Ferrara", durante un rastrellamento nei distretti di Nikšić e Savnik, saccheggiò e distrusse in parte o totalmente tutti i centri abitati della zona, fucilando un gran numero di civili. Il villaggio di Medjedje in particolar modo fu completamente annientato e quando vi ritornarono i superstiti trovarono tra le macerie carbonizzate 72 cadaveri mutilati, in gran parte vecchi e ammalati impossibilitati a muoversi.
ll 26 giugno 1942 a Nikšić il giovane Dujo Davico, che lavorava come cameriere presso la mensa degli ufficiali del comando italiano del 48º reggimento fanteria "Ferrara", lanciò contro di loro una bomba a mano. Nonostante l'azione non provocò vittime, per rappresaglia vennero fucilati 20 prigionieri comunisti per opera dei carabinieri italiani. L'8 settembre 1943 trovò dislocate nei territori della Jugoslavia ben 27 divisioni del R.E.I. e nel Montenegro il XIV Corpo d'Armata, comandato dal generale Ercole Roncaglia, disponeva di quattro divisioni:
- la divisione alpina "Taurinense", presidiava Nikšić, comandata dal generale Lorenzo Vivalda;
- la divisione di fanteria da montagna "Venezia", presidiava Berane, comandata dal generale Giovanni Battista Oxilia;
- la divisione di fanteria da montagna "Ferrara", presidiava la valle del fiume Zeta con Podgorica e Cettigne, comandata dal generale Antonio Franceschini;
- la divisione di fanteria da occupazione "Emilia", presidiava le Bocche di Cattaro, comandata dal generale Ugo Buttà.
Di fronte all'assenza di disposizioni dall'Italia e alle disposizioni di resa incondizionata e l’avvio ai campi di prigionia poste dagli ex alleati tedeschi ci furono alcuni giorni di confusione e di reazione da parte dei soldati italiani. Le prime reazioni furono dei soldati del Gruppo di artiglieria alpina “Aosta”, comandate da Carlo Ravnich, che il 9 settembre spararono cannonate alla colonna tedesca che tentava di raggiungere Nikšić. A Podgorica il 13 settembre ci fu l'ultima riunione dei comandanti del Corpo d'Armata che decise di prendere tempo. Il 14 settembre una colonna di 8.000 soldati della "Taurinense" cercò di dirigersi dall’interno del Montenegro verso le Bocche di Cattaro perché la Divisione “Emilia” aveva deciso unilateralmente di combattere i tedeschi, finendo però annientata. La colonna della "Taurinense" fu però respinta dall'esercito tedesco vicino a Cettigne, attaccata a Ledenice, accerchiata nei pressi di Grahovo. Dopo circa 15 giorni la "Taurinense", che aveva perso nei combattimenti circa 6.000 uomini, tutte le armi pesanti e tutti i viveri, riprese la via delle montagne e il comando di Divisione prese contatti con gli ex nemici del comando partigiano. Il 15 settembre venne arrestato a Podgorica il generale Roncaglia.Le oggettive difficoltà e incomprensioni iniziali con i partigiani furono superate dagli stessi considerando il comportamento dei soldati italiani contro i tedeschi. Dalla precedente organizzazione della Divisione alpina "Taurinense", furono costituite, su base volontaria, le prime due brigate di 800 uomini ciascuna che si aggregarono alla Divisione di fanteria da montagna “Venezia” , ancora unita e composta da 15 000 uomini. La divisione “Venezia”, che era stata fortunata di essere accampata a Berane e che si era difesa dagli attacchi tedeschi, ebbe anche la possibilità di ricevere, dopo diverse traversie, un piccolo aereo delle Forze armate italiane, dipendenti dal Governo del Generale Pietro Badoglio, con i codici cifrati che permisero di mantenere i collegamenti con i Comandi Militari dislocati nel Sud d'Italia.
Il 3 dicembre 1943, nei pressi di Plevlja, fu costituita così una formazione partigiana, esclusivamente su base volontaria ed individuale, la Divisione italiana partigiana "Garibaldi" con quattro brigate, alle dipendenze strategiche del II Corpus dell'Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo. Secondo (3) la denominazione fu imposta dal II° Corpus dell'EPLJ ma, comunque gli italiani ebbero l'avallo dello Stato Maggiore del Governo Badoglio. Per richiamarsi a Garibaldi fu adottata un fazzoletto o una cravatta rossa.
Nel febbraio 1944 due brigate (circa 2.800 uomini) furono inviate in Bosnia al seguito del II Corpus. Una delle due fu decimata e solo un quinto riuscì a tornare. Una terza brigata, dopo due mesi di scontri in Bosnia, scomparve e solo i pochi superstiti ritrovarono gli ex commilitoni partigiani. Nell'agosto 1944 sei divisioni tedesche, in ritirata dalla Grecia, scatenarono in tutto Montenegro l'ultima offensiva e accerchiarono tutte le forze partigiane jugoslave e italiane. Per venti giorni le zone di Bjelasica, di Sinjajevina, del massiccio del Durmitor, del Komarnica, del Javorak furono tutto un susseguirsi di sanguinosi combattimenti. Le residue tre brigate della Divisione italiana partigiana "Garibaldi" si distinsero nella lotta anti-nazista. Mentre la prima brigata, decorata in seguito con la medaglia d'oro al valor militare, proseguì la sua attività nel Sangiaccato, le altre due brigate furono assegnate al presidio della costa della Dalmazia.Nel gennaio 1945 la prima brigata inseguì il nemico nazista fino alla città di Sarajevo, La Divisione italiana partigiana Garibaldi si riunì, alla fine dei combattimenti, nel porto dalmata di Ragusa per rientrare in Italia. I sopravvissuti furono, rispetto ai 24.000 militari degli organici delle Divisioni "Venezia" e "Taurinense" alla data dell'8 settembre 1943, solo 3.500.
Il rientro si concluse l'8 marzo 1945.
Seconda Guerra Mondiale. Immagini di morte
Le fotografie che seguono sono foto di una crudezza incredibile che però illustrano molto bene la crudeltà della guerra e la sua inutilità per risolvere le cosiddette "controversie internazionali" come recita la nostra Costituzione e come ha riaffermato l'alta autorità morale di papa Francesco.
Dopo l'insurrezione del 13 luglio 1941 diverse zone del Montenegro rimasero sotto il parziale o totale controllo degli insorti. Nel corso di questa guerriglia fu usata questa tecnica: 3-400 partigiani attaccavano piccoli o piccolissimi distaccamenti di Carabinieri, Finanzieri e Militari del R. E.che non avevavo altra scelta che combattere o morire in quanto nessuna delle due parti in lotta di solito faceva prigionieri. Allora le foto testimoniano la crudeltà di questa guerra sia da parte montenegrina che da parte italiana. C'è da ricordare che la Divisione Ferrara,chiamata in aiuto allealtre che già presidiavano il Montenegro si distingueva per la presenza al suo interno di una Legione di "Camicie Nere" e dalla presenza delle MVAC albanesi. C'è da aggiungere che la Divisione Ferrara riprese il controllo della zona affidatale solo sei sette mesi più tardi, dopo un inverno abbastanza rigido e con forti nevicate.
(Preciso che le immagini che seguono non sono adatte alla visione di minorenni, anche se, del resto la TV ci ha abituato a ben altri spettacoli e che i fatti sono successi, se la cosa può valere a rendere meno dolorosa la visione, oltre settanta anni fa). (Marcello Piccioni).
(Preciso che le immagini che seguono non sono adatte alla visione di minorenni, anche se, del resto la TV ci ha abituato a ben altri spettacoli e che i fatti sono successi, se la cosa può valere a rendere meno dolorosa la visione, oltre settanta anni fa). (Marcello Piccioni).
Montenegro
1942, 9 maggio. Esecuzione di Cesemir Ljubo Čupić. Cupic era nato nel
1913 da una famiglia montenegrina emigrata in Nord America e all’età di
14 anni torna con i genitori in Montenegro . Terminati gli studi
superiori si trasferisce a Belgrado
dove studia legge e diventa membro del Partito Comunista Jugoslavo. Nel
1941, dopo la capitolazione del paese, torna in Montenegro per unirsi
ai partigiani ma nell’aprile del 1942 viene catturato durante una
battaglia dai cetnici e imprigionato. Il plotone di esecuzione è composta
da cetnici montenegrini (Marcello Piccioni)
Questa
foto, sembra che fosse stata scattata dall'allora capitano Carlo
Ravnich comandante de Gruppo di artiglieria da Montagna " Aosta".
Tuttavia questa foto, fa parte di quelle che mi consegnò il fante del
48° Reggimento Fanteria "Ferrara". Sembra essere la stessa seppure in
condizioni non perfette. (Marcello Piccioni)
Cimitero di guerra italiano nella zona di Niksic, Montenegro. 1942
Seconda Guerra Mondiale. Cronache di guerra (1)
Testo di Marcello Piccioni
La Divisione " Torino " partì da Roma - Ostiense e arrivò a Borsa ( in Romania ) dopo 2375 chilometri di tradotta. A piedi raggiunsero Suceava e Botosani sempre in Romania. La divisione fece ulteriori 2450 chilometri a piedi dalle falde dei Carpazi fino al Don, i camion li raggiunsero nel mese di agosto del 1941 a Uman ma si trattava di pochissimi chilometri, 5 o 6 chilometri per raggiungere Mussolini e Hitler che erano venuti in visita al fronte (che tra l'altro stava lontanissimo ) che avrebbero passato in rivista la divisone Torino in quanto le altre già avevano raggiunto il fronte vero.
Finita la messa in scena furono riportati indietro con i camion e zaino in spalla e ricominciarono la marcia a piedi. E meno male che la divisione , sulla carta era " autotrasportata". Sempre a piedi arrivarono al fiume Dnieper, presso Dniepropetrowsky,
A Dniepropetrowsky dettero il cambio alla "divisione SS Viking" tedesca. Questa Divione era composta da volontari provenienti da tutte le nazioni del NordEuropa già conquistate dai nazisti. Nei giorni 29, 30 e 31 settembre tutto il C.S.I.R. fu coinvolto nella battaglia di Petrikovka, dove, attuando una manovra avvolgente, vennero sbaragliate le forze nemiche contrapposte Nelle azioni in questo settore le divisoni del CSIR catturò circa diecimila soldati russi. Da lì marciarono verso Stalino, sempre a piedi. Quello fu un periodo molto tragico perché cominciavano le piogge e anche le piste battute, con la pioggia, non esistevano più. Il fango che si attaccava agli scarponi diventava un peso insopportabile, considerando che bisognava tirarsi dietro anche lo zaino e il fucile.
Il 28 ottobre 1941 arrivarono a Stalino. Intanto cominciava il freddo e i primi campi minati. I russi distruggevano tutto. I pozzi erano avvelenati: ci trovavamo dentro gli animali per cui non si poteva attingere acqua. I rifornimenti per bere arrivavano da due, trecento chilometri di distanza. Non tutti i pozzi erano avvelenati ma era comunque un ulteriore impedimento ad un'avanzata non certo agevole. Lungo la strada c'erano tanti trabocchetti: mine, inserite persino in bottiglie alle quali davi un calcio per spostarle e scoppiavano. (Marcello Piccioni).
L’11 dicembre 1942 ebbe inizio l’operazione militare denominata dai sovietici "Piccolo Saturno". Dapprima fu infaticabilmente attaccata la "Divisione Ravenna" di fanteria motorizzata. I giorni seguenti fu la volta della "Divisione Cosseria", ma gli attacchi violenti e pesantissimi continuarono per settimane, assottigliando gli organici già provati duramente dell’intera Armir. Una divisione, la "Torino", iniziò il ripiegamento dalle posizioni già conquistate sul Don il 21 dicembre. A questa si aggiunsero i resti delle divisioni "Pasubio" e "Ravenna", nonché alcuni contingenti in ritirata dell’esercito tedesco. La colonna in ritirata incappò anche in una pesantissima sconfitta nei pressi della città di Arbusov. In previsione di un annientamento totale, furono bruciate le bandiere dei reggimenti per non farle cadere in mano nemica. Tuttavia la combattività dei soldati italiani permise all’intera colonna di raggiungere il centro di Tzertkowo e di mettersi relativamente in salvo dal freddo e dai proiettili sovietici, il 26 dicembre 1942. L’11 dicembre 1942 iniziò l'attacco denominato "Piccolo Saturno" contro le nostre linee, in particolare contro il settore tenuto dalla Divisione Ravenna, tendente, con il logoramento, a distruggerne le posizioni.
Il 12 dicembre anche la Cosseria venne investita dall'attacco russo a Novo Kalitwa. La pressione nemica continuava senza interruzione con l’utilizzo di forze nuove mentre le unità italiane si assottigliavano sempre più, sempre però resistendo sul posto.
La Divisione Torino iniziò il ripiegamento in colonna il 21 dicembre 1942 raccogliendo poco per volta aliquote della Divisione Ravenna e della Divisione Pasubio che si aggregarono al grosso della colonna preceduta nella marcia dalla 298a Divisione tedesca.
Tale colonna, il giorno 22 dicembre, ad Arbusov, si trovò bloccata da un nuovo attacco sovietico.
Il 23 dicembre, giudicata insostenibile la situazione e vicino all'annientamento totale, vennero bruciate le bandiere dei Reggimenti, ma la resistenza dei soldati durò accanita tanto che, in una azione di sorpresa, gli assediati sfondarono l'accerchiamento e favoriti dalla nebbia, ripresero la via della ritirata raggiungendo fra tempeste di neve e combattimenti, Tcertkowo il 26 dicembre 1942.
A Tcertkowo, la colonna della poté riposare e rifocillarsi, però venne nuovamente circondata da truppe motorizzate sovietiche che, passate attraverso la breccia creatasi nel fronte, imperversavano nelle nostre retrovie.
Fino al 20 gennaio 1943, a più riprese, due Divisioni tedesche venute in aiuto, tentarono vanamente di rompere il cerchio dall'esterno.
In un estremo tentativo oltre diecimila uomini vinsero la resistenza e passarono: il 16 gennaio entrarono in Belowodsk e finalmente si ricongiunsero alle forze dell'Asse . Dopo tre giorni di calma relativa, il grosso dell’Armir fu di nuovo attaccato da truppe motorizzate sovietiche nella cittadina in cui si era rifugiato. Fino al 20 gennaio 1943, a più riprese, due divisioni della Wehrmacth tentarono vanamente di rompere l’accerchiamento dell’Armir dall’esterno. Solo alla fine del mese, presso il villaggio di Belowodsk, si ruppe l’accerchiamento, le truppe tedesche si congiunsero con quelle italiane ed insieme costituirono una linea difensiva lungo le rive del fiume Don.Diversa situazione e diversi avvenimenti si verificarono per le divisioni "Celere" e "Sforzesca" le quali, invece di ritirarsi, dopo essersi congiunte nel villaggio di Makejewka ed aver radunato altri reparti militari italo-tedeschi sbandati, proseguirono con foga l’avanzata in territorio russo. Nel frattempo le truppe alpine delle divisioni "Tridentina" e "Julia" opposero un'eroica resistenza agli attacchi in posizioni strategiche che, considerata la linea d’attacco globale delle armate sovietiche, non avevano più alcun senso tattico.La resistenza della "Julia", i cui militi furono ridotti allo stremo dal freddo e dalla fame, evitò tuttavia una situazione ben peggiore che avrebbe potuto verificarsi per l’intera Armir in ritirata. Peraltro la stessa Radio Mosca, in un bollettino di guerra ufficiale del 17 gennaio 1943 ammise che soltanto il corpo alpino italiano Julia avrebbe dovuto essere considerato imbattuto militarmente sul fronte russo.
Nello stesso giorno tutti gli alpini dell’Armir ricevettero l’ordine di ripiegare. In mezzo alla neve e con i pochi mezzi rimasti a disposizione marciarono per quasi duecento chilometri, lottando col gelo e le intemperie, in mezzo ai colpi di artiglieria nemica che non davano scampo.Un episodio di valore. Nel primo mattino del 26 gennaio 1943 alcuni gruppi di soldati italiani in ritirata raggiunsero l’abitato di Nikolajewka. Qui trovarono ad attenderli reparti di artiglieri, che iniziarono un fuoco violento e continuato contro la colonna italiana. Nel frattempo, la testa dell’enorme colonna di soldati dell’Armir in ripiegamento spuntò sulle colline a ridosso delle postazioni sovietiche. Se l’artiglieria nemica non fosse stata bloccata, il numero dei morti sarebbe stato immenso.Fu allora che il generale Luigi Riverberi, presente nella prima colonna, saltò sopra un cingolato tedesco e comandò una carica a piedi, senza supporti, contro le postazioni d’artiglieria nemica. L’azione audace, ma eroica dell’ufficiale ebbe successo. Le postazioni di artiglieria arretrarono e una grande parte dei superstiti dell’Armir poté mettersi in salvo e riprendere la marcia verso la salvezza, al di fuori del territorio russo. Così sempre impietoso e tremendo verso i suoi invasori. (Marcello Piccioni).
Il 12 dicembre anche la Cosseria venne investita dall'attacco russo a Novo Kalitwa. La pressione nemica continuava senza interruzione con l’utilizzo di forze nuove mentre le unità italiane si assottigliavano sempre più, sempre però resistendo sul posto.
La Divisione Torino iniziò il ripiegamento in colonna il 21 dicembre 1942 raccogliendo poco per volta aliquote della Divisione Ravenna e della Divisione Pasubio che si aggregarono al grosso della colonna preceduta nella marcia dalla 298a Divisione tedesca.
Tale colonna, il giorno 22 dicembre, ad Arbusov, si trovò bloccata da un nuovo attacco sovietico.
Il 23 dicembre, giudicata insostenibile la situazione e vicino all'annientamento totale, vennero bruciate le bandiere dei Reggimenti, ma la resistenza dei soldati durò accanita tanto che, in una azione di sorpresa, gli assediati sfondarono l'accerchiamento e favoriti dalla nebbia, ripresero la via della ritirata raggiungendo fra tempeste di neve e combattimenti, Tcertkowo il 26 dicembre 1942.
A Tcertkowo, la colonna della poté riposare e rifocillarsi, però venne nuovamente circondata da truppe motorizzate sovietiche che, passate attraverso la breccia creatasi nel fronte, imperversavano nelle nostre retrovie.
Fino al 20 gennaio 1943, a più riprese, due Divisioni tedesche venute in aiuto, tentarono vanamente di rompere il cerchio dall'esterno.
In un estremo tentativo oltre diecimila uomini vinsero la resistenza e passarono: il 16 gennaio entrarono in Belowodsk e finalmente si ricongiunsero alle forze dell'Asse . Dopo tre giorni di calma relativa, il grosso dell’Armir fu di nuovo attaccato da truppe motorizzate sovietiche nella cittadina in cui si era rifugiato. Fino al 20 gennaio 1943, a più riprese, due divisioni della Wehrmacth tentarono vanamente di rompere l’accerchiamento dell’Armir dall’esterno. Solo alla fine del mese, presso il villaggio di Belowodsk, si ruppe l’accerchiamento, le truppe tedesche si congiunsero con quelle italiane ed insieme costituirono una linea difensiva lungo le rive del fiume Don.Diversa situazione e diversi avvenimenti si verificarono per le divisioni "Celere" e "Sforzesca" le quali, invece di ritirarsi, dopo essersi congiunte nel villaggio di Makejewka ed aver radunato altri reparti militari italo-tedeschi sbandati, proseguirono con foga l’avanzata in territorio russo. Nel frattempo le truppe alpine delle divisioni "Tridentina" e "Julia" opposero un'eroica resistenza agli attacchi in posizioni strategiche che, considerata la linea d’attacco globale delle armate sovietiche, non avevano più alcun senso tattico.La resistenza della "Julia", i cui militi furono ridotti allo stremo dal freddo e dalla fame, evitò tuttavia una situazione ben peggiore che avrebbe potuto verificarsi per l’intera Armir in ritirata. Peraltro la stessa Radio Mosca, in un bollettino di guerra ufficiale del 17 gennaio 1943 ammise che soltanto il corpo alpino italiano Julia avrebbe dovuto essere considerato imbattuto militarmente sul fronte russo.
Nello stesso giorno tutti gli alpini dell’Armir ricevettero l’ordine di ripiegare. In mezzo alla neve e con i pochi mezzi rimasti a disposizione marciarono per quasi duecento chilometri, lottando col gelo e le intemperie, in mezzo ai colpi di artiglieria nemica che non davano scampo.Un episodio di valore. Nel primo mattino del 26 gennaio 1943 alcuni gruppi di soldati italiani in ritirata raggiunsero l’abitato di Nikolajewka. Qui trovarono ad attenderli reparti di artiglieri, che iniziarono un fuoco violento e continuato contro la colonna italiana. Nel frattempo, la testa dell’enorme colonna di soldati dell’Armir in ripiegamento spuntò sulle colline a ridosso delle postazioni sovietiche. Se l’artiglieria nemica non fosse stata bloccata, il numero dei morti sarebbe stato immenso.Fu allora che il generale Luigi Riverberi, presente nella prima colonna, saltò sopra un cingolato tedesco e comandò una carica a piedi, senza supporti, contro le postazioni d’artiglieria nemica. L’azione audace, ma eroica dell’ufficiale ebbe successo. Le postazioni di artiglieria arretrarono e una grande parte dei superstiti dell’Armir poté mettersi in salvo e riprendere la marcia verso la salvezza, al di fuori del territorio russo. Così sempre impietoso e tremendo verso i suoi invasori. (Marcello Piccioni).
Anno 1944 - Il pilota tedesco sepolto nel cimitero di Oriolo
Tutti ricorderanno (o quasi tutti) questa "strana" tomba, la n 16, del settore di dx del Cimitero di Oriolo Romano. Altrettanto tutti ricorderanno la pala di elica appoggiata, non come si vede nella foto, ma ai lati della tomba (anzi sono convinto o così mi sembra di ricordare che le pale fossero due). A diradare le nebbie che avvolgono questa sepoltura ci hanno pensato il Sig. Lorenzo Corradi e il sig. Gianandrea Bussi con due articoli apparsi su "Ali Antiche" del 1997, n. 46 e sul numero 64 del Marzo 2002. Articoli ormai datati, ma estremamente precisi e informatissimi, e che essendo stati pubblicati su una rivista "di nicchia" rimangono sconosciuti alla maggior parte degli oriolesi.
Ma a chi apparteneva la salma sepolta? Si trattava del maggiore dell'aviazione tedesca Erhard Merges, nato a Berlino-Friedenau il tre agosto del 1915, pilota di aeroplani da trasporto e da caccia. Sarebbe stato abbattuto, il 17 marzo 1944, assieme al suo Fw 190-G3 MM 160479 da caccia Spitfire inglesi a 4 km da Anguillara Sabazia dove aveva tentano un atterraggio di emergenza. Ferito in maniera estremamente grave era stato trasportato all'infermeria dell'Idroscalo di Vigna di Valle dove era morto. Da qui fu trasportato nel cimitero di Oriolo dove rimase fino ai primi anni '90 del secolo scorso. Questo è, in sintesi, quanto si evince dall'informatissimi articoli di L. Corradi e G. Bussi.
Il mistero delle pale (o della pala) di elica poste(a) vicino alla tomba. Al restauro effettuato dai volontari di Gruppo Amici Velivoli Storici (GAVS) è apparso evidente che non si trattasse di una pala appartenente ad un aereo tedesco ma bensì ad un Ca133 (la cosidetta "Caprona") un vecchio aereo da trasporto e da bombardamento degli anni '30 dei quali i tedeschi si erano impadroniti dopo l'8 settembre 1943 e che probabilmente utilizzavano nei numerosi aeroporti circostanti (Viterbo, Cerveteri, Tarquinia, Furbara....).
Altro mistero da svelare sarebbe quello di capire perché fu sepolto ad Oriolo. Ma qui non ci aiuta neanche l'anagrafe del Comune in quanto nulla compare nei registri a proposito di questa sepoltura. E non si può neanche dire che l'aereo fosse caduto in territorio di Oriolo in quanto le fonti orali e testimoni oculari lo escluderebbero. Dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944) si svolsero sopra i cieli di Oriolo diversi duelli aerei. Il primo vide abbattuto un caccia americano che cadde nella Valle della Carvice (tra la faggeta e il Cimitero). Il pilota si salvò e fu tirato fuori dall'aereo in fiamme da alcuni abitanti del borgo di Oriolo, tra cui "Toto" Droghini e fu portato in piazza Garibaldi semisvenuto e seduto su una sedia. Li lo catturarono i tedeschi che volevano fucilare i soccorritori tra cui anche la Signora Laura Marchionni. Un altro pilota americano morì sempre in quel periodo dopo che il suo aereo centrato dalla caccia tedesca andò ad infilarsi in una finestra di Villa Cremisini al Palombaro tra Manziana, Montevirginio ed Oriolo. Il terzo caccia questa volta tedesco cadde, abbattuto dagli americani, in Località "Macchion Grande" verso Fonte Natale, dietro la faggeta. Anche in questo caso gli oriolesi si precipitarono a prestare soccorso all'aviatore che trovarono però carbonizzato.
Uno dei soccorritori mi riferì, che togliendo il casco di volo al pilota ormai deceduto, restò meravigliato dei capelli neri del tedesco (che certamente si aspettava biondi). Nei giorni successivi ritornò sul luogo dell'incidente per motivi di lavoro e caricò sopra la sua "sumara" l'elica completa che si era staccata dal mozzo. Dopo la guerra tale elica fu venduta a "ferraccio" al "Trusco" di Canale, attivo in quegli anni come "recuperatore". In questo articolo il Sig. Corradi menziona anche la 3 divisione Panzer Grenadieren, attestata, come scrive ad Oriolo già nei giorni successivi all'8 settembre del 1943.
Stando a quanto mi riferisce lo stesso testimone oculare, all' epoca quindicenne, l'8 settembre stava a letto gravemente ammalato di tifo e quindi non può dire se carri tedeschi fossero ridislocati ad Oriolo. Quello che ricorda è che i carristi (divisa nera e teschi sulle mostrine) venivano scambiati dagli oriolesi per le famigerate SS che indossavano una divisa similare. Ricorda, inoltre, in quanto un carrarmato tedesco era "parcheggiato" proprio sotto la finestra della sua camera da letto che il reparto corazzato rischierato ad Oriolo era la divisione corazzata H. Goering e che stava a riposo in attesa di andare a Cassino. Addirittura ricorda che sentiva un giovanissimo carrista tedesco dire alla propria madre in un italiano stentato ma facilmente comprensibile "Mama io non voler andare a Cassino ...... a Cassino tutti Kaput!!". Altro piccolo mistero è quello della permanenza della salma nel cimitero di Oriolo e del mancato trasferimento al Cimitero tedesco di Pomezia. Presto detto la tomba, nel dopoguerra, fu acquistata dai parenti. Altro mistero, ma facilmente risolvibile è quello della riesumazione della salma e della consegna della pala di elica al GAVS... (Marcello Piccioni)
VN40-0001 - Tratto dalla rivista "Ali Antiche" del giugno 1996. "Credo che sia opportuno ringraziare il GAVS di Roma per la meritoria opera di recupero di questo bene storico. Credo che sia giusto ringraziare Massimo per aver fatto da tramite con questa benemerita associazione. Credo che sia altrettanto opportuno che tale cimelio venga esposto al Museo Storico dell'Aviazione di Vigna di Valle, proprietaria legittima delle pale dell'elica della Caprona ". (Marcello Piccioni).